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"Mundele" - Impressioni di novembre

Vedo un’immagine riflessa, deformata, opaca, dai contorni irregolari.
 
Si muove quando lo faccio anche io, sembra una candela dinoccolata dove non è la fiamma ma la cera a ondeggiare. Fa un certo effetto, anzi fa molto effetto, perché è una candela completamente bianca in mezzo a centinaia di altre tutte nere. Loro si agitano come se conoscessero bene il vento che le muove, ogni singolo refolo, cambio di direzione, improvviso impeto. In certi attimi quasi si fermano, come guidate da una forza superiore, poi ripartono all’unisono, spinte ognuna dal proprio Eolo, nel frastuono di una tempesta in un bosco.
 
Aeroporto di Kinshasa, ritiro bagagli, un ex specchio riflette la mia immagine. Quell’unica candela bianca sono io.
 
Molte cose in Congo sono “ex”.  Quello che ti circonda immagini abbia decenni, e poi scopri che basta pochissimo per trasformare tutto in qualcosa di molto “ex”.  Qui il tempo sembra correre molto più velocemente, e così le case, le auto, le strade diventano “ex” in brevissimo tempo. A trent’anni si è già “ex” giovani, e a quell’età una donna è mamma ma anche “ex” mamma, perché è molto probabile che sia già nonna. Bisogna sbrigarsi, perché l’età media in Congo è di 16 anni, e con un’aspettativa di vita simile a quella del nostro Medio Evo, 49 anni.
 
Io sono un “mundele”, un bianco, e per di più anche canuto, e posso garantirvi che a Kinshasa non ho visto un solo abitante coi capelli bianchi. Forse qualcuno c’è, ma quale sessantenne si azzarderebbe ad attraversare una strada quando il traffico è un tafferuglio, una zuffa di cofani, manubri, braccia che si fanno largo tra altrettanti cofani, manubri e braccia per guadagnare quei pochi centimetri che costringono l’altro a lasciare il passo?  Non esistono semafori, il traffico è una folle piramide alimentare. Alla base, divorato da tutti, c’è il pedone-donna carica di oggetti, alla sommità il camion, vecchia balena sgangherata, piena di precedenti ferite, che taglia indifferente e inarrestabile quel mare di varia umanità.  Il mondo di mezzo è fatto di biciclette cariche all’inverosimile, carretti spinti da bambini, auto senza portiere con passeggeri dentro i bagagliai, motorette con tre persone e capra in spalla. Un’umanità in movimento dove nessun occidentale riuscirebbe a sopravvivere alla guida per più di un paio di chilometri, neanche il più smaliziato. Eppure, e per me miracolosamente, in questa specie di corpo umano, dove corrono e si intrecciano globuli, linfa, ormoni e migliaia di altre sostanze c’è una sorta di equilibrio del tutto, una misteriosa forza regolatrice del caos. Non aver visto un solo incidente, per un “mundele” sfiora il miracolo.
 
Kinshasa ha diciassette milioni di abitanti, e ha cinquantamila bambini di strada.
 
Una piccola città di piccoli uomini che dormono dove capita e ogni mattina, appena svegli, si mettono a caccia del cibo che li faccia sopravvivere, in un moderno e terribile ritorno alle nostre origini.
 
Non c’è turismo, non ci sono bianchi a cui chiedere qualcosa, e fatico a capire come riescano a trovare da mangiare, ogni giorno.
 
Generalmente, i “mundele” non ricevono sguardi empatici, anzi.  Soprattutto in città. E certo non si può dargli torto. Sul perché mi pare stupido scriverne, tanto è ovvio. C’è un terribile passato, e un presente dove sotto i miei piedi c’è litio, coltan, diamanti. Sto usando cellulare e computer grazie alle sofferenze di chissà quante persone.
 
La maggior parte dei congolesi vive a stento, una minoranza ristretta gode, e gode molto. Sono pochi eletti e, come dicono tutti, la loro forza è la poca conoscenza delle declinazioni verbali.
 
Se, ad esempio, gli chiedi di coniugare il presente indicativo del verbo mangiare, loro snocciolano “Je mange, tu manges, il mange, nous mangeons”… e qui si fermano.  Vous e ils non sono contemplati.
 
Il Congo è tutto e niente, è un cambio di iniziale, il Congo è pongo.  Baracche, spazzatura che brucia ovunque (la raccolta rifiuti non esiste), ma anche foreste, montagne, e savana; il Congo può assumere tutte le forme che tu possa immaginare, ma la sostanza è la stessa, la sostanza sono loro, quelli che vedo intorno a me, tutti con quel sottile velo in fondo ai loro occhi.
 
In Congo, nella sua aria polverosa, non ho trovato tracce di “hakuna matata”. La loro lentezza, la loro pazienza, mi pare figlia della rassegnazione. Noi occidentali diciamo sempre che la vita, in certi posti, vale meno che da noi, se una madre qui perde un figlio poco gliene importa, tanto ne fa altri. Chissà perché siamo così stupidi, forse pensiamo così per lavarci la coscienza per tutto quello che abbiamo fatto e continuiamo a fare all’ Africa e ai suoi figli.
 
In Congo, dicevo, non c’è turismo, quasi tutti i siti dei governi occidentali sconsigliano vivamente di andarci, se non per motivi strettamente necessari, i congolesi non amano i “mundele”, e ne hanno tutte le ragioni.
 
Prima il Congo aveva un proprietario, era il re del Belgio Leopoldo II.
 
Proprietario in senso stretto, perché non era una colonia del Belgio, ma il suo giardino privato, esente da ogni ordinamento giuridico. E così lo ha sempre considerato per 23 anni, durante i quali la popolazione è stata dimezzata.  A chi non raccoglieva la quota giornaliera di caucciù richiesta veniva amputata una mano o tolta la vita, senza badare all’età. Le atrocità dei suoi mercenari si ritiene siano state le più terrificanti tra quelle compiute dai paesi colonialisti. Emblematico il caso di Boali, una bimba di 5 anni a cui amputarono una mano e un piede che il padre, in una famosissima foto, guarda disperato. Leopoldo II, responsabile di oltre 10 milioni di congolesi morti, è stato paragonato da molti storici a Hitler, e un suo ufficiale, col suo regno privato sulle rive del fiume Congo, è stato ispirazione per Conrad nel disegnare il protagonista di “Cuore di tenebra”, il Kurtz di “Apocalypse Now”.
 
Con un passato così è comprensibile che i bianchi non siano i benvenuti.  Quindi vietato, e assai sconsigliato, fotografarli, o semplicemente, in molte zone delle città, girare a piedi.
 
Altra atmosfera si respira nei villaggi, coi bambini di queste comunità rurali che, ancora non consapevoli, si avvicinano, sorridono, ti toccano chiedendosi come un loro simile possa essere così poco simile a loro.
 
La sensazione è che il Congo ti accolga e al contempo ti respinga. Per quanto mi riguarda non saprei cosa abbia avuto il sopravvento. Certo ti chiede tanto, ma credo altrettanto ti restituisce. Non saprei descrivere cosa, forse quel primordiale senso umano che ancora c’è negli occhi della gente, o magari un inconscio ritorno alle origini di tutti noi umani, un riconoscere inconsapevolmente quegli spazi, quegli odori come la nostra antica madre.
 
I figli che le sono rimasti vicini sembrano meglio riusciti di quelli che nei millenni si sono sparsi nel mondo. Si vedono giovani che paiono divinità pagane. Mentre li vedo galleggiare eleganti in queste strade polverose, a me pare di camminare goffamente, di stare storto e curvo, vagamente ridicolo di fronte alla potenza che mi circonda. Forse le primordiali migrazioni ci hanno annacquati.
 
Questo è il Congo, o meglio un piccolo pezzo di Congo come l’ho visto io. Sicuramente ognuno ne ha uno tutto suo, quindi perdonatemi l’eventuale personalizzazione.
 
E grazie soprattutto di aver avuto la pazienza di leggermi fino alla fine.